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Pillole di informazione digitale

Segnalazioni di articoli su diritti digitali, software libero, open data, didattica, tecno-controllo, privacy, big data, AI, Machine learning...

Vera e propria rivoluzione, il digitale era la promessa di un mondo più verde: meno carta stampata e viaggi ridotti. Tuttavia questa dematerializzazione ha delle conseguenze e gli impatti ambientali sembrano ancora essere sconosciuti o ignorati dal grande pubblico.

In un momento in cui l’obsolescenza programmata sta aumentando la produzione di dispositivi elettronici e il volume di dati digitali generati dall’umanità sta esplodendo, come possiamo rendere l’inquinamento digitale un problema visibile, ma soprattutto come possiamo ridurre l’impronta del digitale nella crisi climatica?

Dal punto di vista del suo ciclo vitale, la fabbricazione di un oggetto elettronico necessita la produzione di componenti complessi che richiedono energia, trattamenti chimici, acqua, ma soprattutto una notevole quantità di metalli preziosi. Questa industria contribuisce al 76% dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili in tutto il mondo[1], per non parlare delle discutibili pratiche di estrazione e delle condizioni di lavoro spesso deplorevoli.

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Le terre rare sono un gruppo di 17 minerali ormai considerati indispensabili per la transizione ecologica e digitale, visto il loro diffuso utilizzo in ambiti come le tecnologie avanzate, la medicina, la difesa e le infrastrutture per trarre energia da fonti rinnovabili. Tuttavia si tratta di materiali che in natura si presentano in concentrazioni molto basse, legati in composti con altri minerali. Il che rende la loro estrazione un processo lungo, complesso e, soprattutto, altamente inquinante.

Ad oggi la produzione di terre rare raggiunge le centinaia di migliaia di tonnellate ogni anno: 243.300 nel 2020, di cui circa 140mila prodotte dalla Cina e 38mila dagli Stati Uniti. La Cina da sola detiene il 38% delle riserve esistenti a livello globale, per un totale di 44 milioni di tonnellate su 115,8.

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Carbolytics è un progetto all'intersezione tra arte e ricerca che ha l'obbiettivo di sensibilizzare e invitare all'azione sull'impatto ambientale della sorveglianza pervasiva all'interno dell'ecosistema della tecnologia pubblicitaria (AdTech), così come a fornire una nuova prospettiva per affrontare i costi sociali e ambientali delle pratiche opache di raccolta dati.

Il tracking online è l'atto di raccogliere dati dall'attività degli utenti online, come leggere le notizie, acquistare articoli, interagire sui social media o semplicemente fare una ricerca online.

È noto che il tracciamento e la registrazione del comportamento degli utenti è diventato un importante modello di business nell'ultimo decennio. Tuttavia, anche se le conseguenze sociali ed etiche delle pratiche abusive di sorveglianza online sono state oggetto di dibattito pubblico almeno dalle rivelazioni di Snowden nel 2013, i costi energetici e ambientali di tali processi sono stati tenuti lontani dall'occhio pubblico. L'apparato globale di raccolta dati è un complesso labirinto tecnologico che ha bisogno di grandi quantità di risorse per esistere e funzionare, eppure le aziende raramente rivelano informazioni sull'impronta ambientale di tali operazioni. Inoltre, una parte dei costi energetici derivanti dalle pratiche di raccolta dati è ricade sull'utente, che involontariamente contribuisce al grande aumento di produzione di CO2.

Anche se questo è un aspetto critico della sorveglianza, c'è un'allarmante mancanza di volontà sociale, politica, aziendale e governativa per la responsabilità, quindi una richiesta di azione è urgente.

La ricerca alla base di Carbolytics ha preso in esame e analizzato le emissioni di carbonio prodotte dal numero totale di cookie appartenenti al milione di siti web più visitati al moneto. L'indagine ha identificato più di 21 milioni di cookie per ogni singola visita a tutti questi siti web, appartenenti a più di 1200 aziende diverse, il che si traduce in una media di 197 trilioni di cookie al mese, con conseguente emissione di 11.442 tonnellate metriche mensili di CO2.

È importante notare che questo numero riflette solo il traffico di cookie basato sul browser e non include l'attività di tracciamento delle App, quindi stimiamo che questo numero sia drammaticamente più alto.

Carbolytics è anche una installazione web interattiva che mostra il traffico globale medio dei cookies in tempo reale.

Tutte le informazioni sono sul sito del progetto

Divertiti con l'installazione interattiva

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Il lifecycle della rete

Nell’immaginario collettivo, quando si portano avanti analisi sull’impatto dell’industria umana sull’ambiente uno degli ambiti produttivi dal volto più eco-friendly è quello delle telecomunicazioni (TLC). Questa attitudine deriva dall’incapacità di riconoscere un impatto fisico effettivo causato da un sistema percepito come totalmente immateriale.

Si tratta di una disposizione assolutamente sbagliata: la rete infrastrutturale delle telecomunicazioni comporta delle forti ripercussioni sull’ambiente in ogni singola fase del suo life cycle.

L’industria delle TLC ricopre sempre maggiore importanza e vede una crescita estremamente rapida dell’utenza online mondiale, 25 volte più alta rispetto al 2011 per la sola rete mobile. Bisogna iniziare ad interrogarsi sull’effettiva eco-sostenibilità del sistema telecomunicativo e della sua rete infrastrutturale in ogni sua singola fase, direttamente partendo dalla sua effettiva realizzazione.

Gli impatti ambientali maggiori nella fase di costruzione sono riscontrabili nel consumo di materie prime per la realizzazione delle leghe metalliche necessarie per la creazione di cavi e strutture (principalmente rame ed acciaio), nei costi energetici del processo di produzione dei materiali e nelle emissioni causate dal trasporto dei suddetti componenti nelle strutture per l’assemblamento.

In seguito alla fase di costruzione, segue quella che si rivela essere più complicata a livello d’impatto ambientale, ossia la fase operativa della struttura. Le dinamiche ambientali che si sviluppano in questo caso sono legate al consumo di energia elettrica per permettere il funzionamento della struttura: maggiore sarà la sua capacità di immagazzinazione e trasmissione dati, maggiore sarà il suo consumo energetico. Inoltre, le strutture non sono in grado di regolare il fabbisogno energetico nei momenti di basso traffico, mantenendo dunque elevati i consumi anche quando non è necessario. Infine, nella fase di “fine della vita” delle strutture, la maggiore problematica risiede in un “end of life treatment” incapace di smaltire e riciclare i prodotti hi-tech.

Gli scarti non vengono recuperati sistematicamente ed essendo destinati ad aumentare di anno in anno a causa dei crescenti investimenti nelle TLC finiranno a popolare le enormi discariche del terzo mondo. Ogni singola fase del processo di vita della rete telecomunicativa comporta delle forti problematiche ambientali, per troppo tempo sottovalutate e che ora devono essere oggetto di maggiore attenzione rispetto al passato.

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L’inquinamento digitale è un fenomeno prodotto dai combustibili fossili utilizzati per produrre l’elettricità necessaria per il funzionamento dei centri dati e dei server, nonché dalla produzione e dallo smaltimento dei dispositivi elettronici che utilizziamo. È responsabile del 4% di emissioni di gas serra e l’attuale andamento suggerisce che tali emissioni possano raddoppiare entro il 2030 a causa dell’aumento degli utenti a livello globale.

Internet non è infatti immateriale: è costituito da una moltitudine di elementi (computer, cavi, antenne) che permettono ai dati (video, foto, email, pagine web) di essere conservati e trasferiti ai nostri dispositivi. Queste tecnologie devono essere prodotte e alimentate, generando un costo energetico significativo.

Com’è prodotto l’inquinamento digitale?

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Vedi anche DIRTY DATA L’impatto ambientale dell’infrastruttura delle telecomunicazioni

Le proteste che sono divampate in Kazakistan, scatenate dalla crisi dell’elettricità e del gas, sembra abbiano a che fare anche con un’attività finanziaria in cui il Paese è campione: l’estrazione di cripto valute, come Bitcoin e Ethereum.

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Intervista. Parla Sanneke Kloppenburg, autrice di un saggio su climate governance e criptovalute. L’illusione di rivoluzionare la lotta alla CO2 con codici informatici

Di recente Sanneke Kloppenburg è stata co-autrice di un articolo estremamente informativo in cui lei e i suoi due colleghi conducono un’indagine di quella che soprannominano «cryptogovernance climatica». Hanno analizzato i documenti di svariate organizzazioni internazionali che si occupano di governance climatica e hanno scovato un gran numero di tesi che potrei definire soltanto “tecno-risolutive” riguardo all’immenso potenziale trasformativo del blockchain. Eppure, leggendo l’articolo, ho avuto l’impressione che somigliassero a quelle «soluzioni non trasformative» – frase che prendo in prestito dal loro ottimo saggio – che circolano nel dibattito sulle politiche internazionali.

Come era prevedibile, emerge che gran parte di questo genere di discorso sulla cryptogovernance non è che l’ennesimo modo di legittimare gli approcci esistenti, fondati su una combinazione di tecnocrazia e di fiducia nel funzionamento delle soluzioni incentrate sul mercato. Come viene chiarito dall’articolo, le tecnologie blockchain rafforzano inoltre molte delle tendenze esistenti della governance ambientale, fra cui – parola nuova per me – la “misuramentalità”.

Leggi l'intervista di Morozov

A cavalcare l'onda dei chip sono sia il mercato dell'auto, dove ormai i semiconduttori sono presenti in molteplici parti, dal gruppo motore alla navigazione all'infotainment, alla strumentazione, sia gli altri prodotti come i pc, le cui vendite sono aumentate in seguito al maggior peso dello smartworking in tempi di pandemia

Ndr: Nessuno prende in considerazione di ridurre la corsa al prodotto nuovo? Per esempio: sto scrivendo con un computer ricondizionato, acquistato 4 anni fa, che ha 6 anni di età ed è ancora velocissimo.

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Tra emissioni, consumi, rifiuti e impronta ambientale, la rivoluzione informatica è sempre meno ecologica. [...] La rivoluzione digitale si è in effetti compiuta, almeno in larga parte, mentre la crisi climatica è sempre lì che incombe, anzi: sempre più. Ridimensionato l’ottimismo acritico della prima ondata per l’innovazione digitale – già messo in discussione, su basi economiche e politiche, da autori come Evgeny Morozov – le cosiddette ICT (information and communications technologies) hanno alla fine deluso le aspettative più rosee di riduzione dell’impatto ambientale.

Negli anni, le tecnologie informatiche e digitali sono diventate, anzi, per certi versi, parte del problema. Qualche dato: per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali, compresi 240 chili di combustibili fossili. Internet da sola succhia il 10% dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più, con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo internazionale. Due ricerche su Google rilasciano anidride carbonica al pari di una teiera d’acqua portata a ebollizione, Netflix consuma da sé l’energia di 40mila abitazioni statunitensi. Mezz’ora di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile (secondo altre fonti, non più di un chilometro e mezzo ), mentre un solo ciclo di training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita. Complessivamente, i consumi energetici dell’intelligenza artificiale raddoppiano ogni 3,4 mesi, e per risolvere in pochi secondi il cubo di Rubik a un algoritmo serve l’elettricità prodotta in un’ora da tre centrali nucleari.

leggi l'articolo completo di Giacometti su "il Tascabile".

DIGITAL GARBAGE. DI ZINCHENKO IVAN

L'impronta di carbonio è determinante e dipende dalla qualità di produzione dell'energia (rinnovabile o no) che alimenta le fasi di fabbricazione e rifornimento degli accumulatori. Se lo scenario, che descriviamo minuziosamente, resta quello attuale, le vetture elettriche sono responsabili di emissioni maggiori di CO2 rispetto a quelle ibride e con motori termici di ultima generazione. In attesa di una conversione (vera) alle rinnovabili

Leggi l'articolo su "Il Fatto quotidiano"