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Pillole di informazione digitale

Segnalazioni di articoli su diritti digitali, software libero, open data, didattica, tecno-controllo, privacy, big data, AI, Machine learning...

Maurizio Franzini e Lisa Magnani prendendo spunto da un emendamento alla legge australiana sul Fair Work, approvato recentemente, riflettono sul diritto dei lavoratori a disconnettersi fuori degli orari normali di lavoro, ignorando messaggi e chiamate del datore di lavoro. Gli autori richiamano brevemente gli ostacoli al pieno riconoscimento di questo diritto e ritengono che in gioco non vi sia soltanto il problema del confine tra lavoro e non lavoro ma la più generale concezione del lavoro e del suo ruolo nella vita delle persone.

Il 12 febbraio scorso Camera e Senato australiano hanno approvato un emendamento che modifica il Fair Work Act del 2009. La notizia ha avuto risonanza a livello internazionale perché il tema è di grande importanza, per le ragioni che cercheremo di chiarire. Si tratta del diritto dei lavoratori alla disconnessione al di fuori degli orari di lavoro, quindi il riconoscimento del diritto di non rispondere, in quegli orari, a chiamate o mail del datore di lavoro o di terze parti (ad esempio, clienti).

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Il 25 agosto è entrato in vigore il Digital Services Act, per ora per le piattaforme online più grandi (quelle con più di 45 milioni di utenti), sino a che sarà applicabile a tutti gli operatori di servizi online a partire dal 17 febbraio 2024. I soggetti interessati sono tutti gli intermediari online, i motori di ricerca e le piattaforme di comunicazione sociale (mercati online, social network, piattaforme di condivisione di contenuti, app store e piattaforme di viaggio e alloggio online) che saranno soggetti a obblighi specifici e crescenti in ragione della dimensione della impresa.

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Alla base vi sono questioni di difficile soluzione, che concernono la natura giuridica dei soggetti coinvolti dalle istituzioni pubbliche. In primo luogo, che cosa sono le grandi piattaforme del web: poteri privati o soggetti che esercitano una funzione pubblica? O altro ancora? E inoltre. Se la premessa è l’eccesso di potere dei baroni del digitale, i c.d. Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft), siamo sicuri che coinvolgerli direttamente nella vigilanza del discorso pubblico costituisca davvero un limite a tale potere e non equivalga invece ad accrescerlo? Il contratto con il quale l’utente usufruisce dei servizi digitali rischia di trasformarsi in un atto di delega, alle compagnie del web, del controllo su alcuni diritti di rango costituzionale. Si può certamente comprendere come taluni profili di interventismo delle Big Companies di Internet abbia ragione di sussistere per le comunicazioni commerciali, per le offerte cioè di beni o servizi, o per quel tipo di comunicazione palesemente illegale perché rimandante a profili della legislazione penale degli Stati membri. Il punto, però, è che il DSA si occupa anche di tutti quei contenuti che costituiscono la mera espressione del proprio pensiero, cioè di una delle libertà costituzionali fondanti dall’Illuminismo in poi l’identità della società civile europea e non solo.

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I sistemi di intelligenza artificiale sono oggi in grado di svolgere alcuni specifici compiti, che erano stati, finora, prerogativa dei soli esseri umani: funzioni quali la traduzione di testi, il riconoscimento facciale, la ricerca per immagini o l’identificazione di contenuti musicali, non trattabili con l’intelligenza artificiale simbolica, sono affrontate con crescente successo dai sistemi di apprendimento automatico (machine learning).

Questi sistemi, di natura sostanzialmente statistica, consentono infatti di costruire modelli a partire da esempi, purché si abbiano a disposizione potenti infrastrutture di calcolo e enormi quantità di dati. Le grandi aziende tecnologiche che, intorno al 2010, in virtù di un modello di business fondato sulla sorveglianza, detenevano già l’accesso al mercato necessario per l’intercettazione di grandi flussi di dati e metadati individuali e le infrastrutture di calcolo per la raccolta e l’elaborazione di tali dati, hanno potuto perciò raggiungere, con l’applicazione di algoritmi in gran parte noti da decenni, traguardi sorprendenti1.

Nella generale euforia per i genuini progressi, le imprese del settore hanno colto l’opportunità per un’espansione illimitata di prodotti e servizi «intelligenti», ben oltre l’effettivo stadio di sviluppo della tecnologia. Con la formula di marketing «intelligenza artificiale», hanno diffuso e messo in commercio sistemi di apprendimento automatico per lo svolgimento di attività che tali sistemi non sono in grado di svolgere o che semplicemente non sono possibili. Tra i prodotti di questo genere – costitutivamente pericolosi e non funzionanti – ci sono

  • le auto a guida autonoma,
  • i sistemi di ottimizzazione predittiva,
  • i generatori di linguaggio naturale.

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Gli strumenti utilizzati dallo smart worker (ad esempio pc portatili e smartphone) per prestare la propria attività lavorativa permettono una reperibilità ed una connessione, non solo potenziale ma di fatto, costante e continua. E ciò rischierebbe di compromettere il bilanciamento tra vita professionale e vita privata che è tra i presupposti dell’istituto del lavoro agile. In questo quadro si inserisce il diritto alla disconnessione, in virtù del quale il prestatore di lavoro deve essere protetto da una potenziale perenne connessione.

Facciamo il punto sugli accordi che tutelano questo diritto.

Argomenti

  • Lo smart worker e il tema della disconnessione
  • Diritto alla disconnessione e garante privacy italiano
  • Il diritto alla disconnessione in Francia
  • Il diritto alla disconnessione nella contrattazione collettiva in Italia
  • Il rischio da tecnostress e la tutela dell’integrità psicofisica dello smart worker

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