Il colosso aeronautico prepara una gara da oltre 50 milioni per portare sistemi e dati mission critical su un cloud europeo «digitalmente sovrano» e ridurre i rischi legati al CLOUD Act Usa
Airbus vuole mettere in discussione una delle dipendenze più profonde dell’industria europea: quella da Amazon, Google e Microsoft. Lo ha detto la vicepresidente per gli Affari digitali del colosso europeo dell’aeronautica, Catherine Jestin, citata dall’emittente francese Bfm, secondo cui il gruppo starebbe preparando una gara per portare applicazioni e dati «mission critical» su un cloud europeo «digitalmente sovrano», con l’obiettivo esplicito di ridurre l’esposizione a norme Usa come il CLOUD Act (la legge del 2018 che può obbligare i provider cloud sotto giurisdizione americana a consegnare dati che controllano, anche se quei dati sono conservati in Europa). La partita si aprirà all’inizio di gennaio 2026 e vale oltre 50 milioni di euro su un orizzonte fino a dieci anni.
“Negli ultimi 30 anni i governanti europei hanno rinunciato a controllare le reti chiave per la gestione delle informazioni. Le hanno lasciate in mano ai giganti digitali Usa. Così l’Europa ha perso la sua indipendenza”
Intervista a tutto campo di TPI a Juan Carlo De Martin, professore di ingegneria informatica al Politecnico di Torino, autore di "Contro lo Smartphone".
Nella conversazione De Martin si esprime non solo sulla computerizzazione del mondo e sul pericolo proveniente dalle Big Tech USA, ma anche sul ruolo che potrebbe avere l'Europa se solo abbandonasse la corsa al riarmo e investisse in ricerca, sviluppo e istruzione.
In sostanza: è giunto il momento per gli europei di riconoscere apertamente che si è chiusa una fase storica e puntare su rapporti il più possibile pacifici e collaborativi con il resto del mondo
Venerdì 21 novembre a Roma, in Via della Dogana Vecchia 5, alle ore 17:30, un incontro organizzato da Scuola critica del digitale del CRS e Forum Disuguaglianze e Diversità.
I conflitti contemporanei, dall’Ucraina al Medio Oriente, sono sempre più guerre digitali, dove le capacità di elaborazione dei dati e l’uso della AI diventano elementi decisivi sul campo di battaglia. Non si combatte più solo con armi fisiche: reti, dati e algoritmi sono ormai il sistema operativo della guerra moderna.
In questo scenario, le Big Tech hanno rafforzato il loro ruolo di fornitori primari dell’apparato industriale-militare degli USA. Ma mentre i riflettori restano accesi sul ristretto gruppo FAMAG (Meta, Apple, Microsoft, Amazon, Google), è un’altra azienda, mediaticamente “minore”, a rappresentare l’esempio più completo e preoccupante della integrazione tra tecnologie digitali e regimi di guerra. Una azienda tanto silenziosa quanto potente: Palantir Technologies.
Poco visibile rispetto alle altre, si è già profondamente integrata con gli apparati di sicurezza e di guerra americani, e si muove nella stessa direzione in tutti i paesi dell’Occidente. A differenza delle altre aziende, Palantir preferisce rimanere in penombra: non vende se stessa al pubblico, non fa pubblicità. Vende potere agli apparati dello Stato. Potere di prevedere, di controllare, di dominare. E facendo questo, in qualche modo, diventa essa stessa Stato.
L’azienda Usa è privata ma lavora per i governi.
Il potere, militare e non, oggi parla in codice. Palantir, la società fondata vent’anni fa a Palo Alto, è diventata la piattaforma che governi e eserciti usano per mettere ordine nel caos dei dati. Non produce armamenti, ma costruisce il software che li guida, nelle missioni e nelle decisioni. Ma soprattutto è lo strumento attraverso cui Peter Thiel, imprenditore e investitore, allarga la sua influenza sulla politica di Washington e sulla nuova amministrazione Trump.
Un unicum diventato imprescindibile per ogni esercito. I prodotti principali di Palantir hanno nomi evocativi, funzionali per far comprendere in fretta la loro utilità marginale. Gotham, usato da intelligence e forze armate, integra basi dati classificate e scenari operativi. Foundry, pensato per imprese e amministrazioni civili, costruisce copie digitali dei processi per ottimizzare logistica, forniture, ospedali. Apollo gestisce la distribuzione del software anche su reti isolate e ambienti critici. L’ultima evoluzione è AIP, la piattaforma che incapsula modelli di intelligenza artificiale nei contesti più sensibili, evitando fughe di dati e garantendo tracciabilità. L’obiettivo è ridurre la distanza tra analisi e decisione, riducendo i rischi collaterali.
L’Europa continua a confondere addestramento con cultura digitale. La colonizzazione tecnologica americana prosegue indisturbata, mentre di sovranità non resta che qualche slogan buono per i convegni
Ci stiamo avvicinando a passi da gigante a quella che Gibson chiama “la singolarità dell’idiozia“, in inglese Singularity of Stupid. Da una parte ci sono quelli che vogliono menare i russi trent’anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e dall’altra ci sono gli Stati Uniti che non sanno decidere se preferiscono una dittatura o una guerra civile, con una crescente possibilità di ottenere entrambe.
In mezzo, c’è una dozzina di tipi oscenamente ricchi e fantasticamente stupidi, che si diverte a bruciare centinaia di miliardi in un culto millenaristico chiamato Intelligenza Artificiale.
E poi ci siamo noi delle colonie, sempre pronti a correre dietro all’ultima moda che viene da oltreoceano.
Tra i temi affrontati da Vannini nell'articolo, segnaliamo:
Una settimana di sentenze per il mondo della silicon valley, tanto in Europa quanto negli Usa. Nonostante Google prenda una multa da quasi 3 miliardi di dollari per abuso di posizione dominante, non si può lamentare: il "rischio" antitrust è scongiurato, e l'Unione Europea si mostra più tenera del solito.
Infatti nonostante negli Usa Google sia riconosciuto come monopolista nel settore delle ricerche sul Web, il giudice ha valutato di dare dei rimedi estremamente blandi, molto lontani da quelli paventati. Ricordiamo che si era parlato addirittura di obbligare Google a vendere Chrome.
Anche nell'Ue i giudici sono clementi. Il caso Latombe, che poteva diventare una sorta di Schrems III, non c'è stato: la corte ha dichiarato che il Data Protection Framework è valido, e che quindi la cessione di dati di cittadini Ue ad aziende Usa è legale. È un grosso passo indietro nel braccio di ferro interno all'unione europea tra organismi che spingevano per questa soluzione (la Commissione) e altri che andavano in senso opposto (la Corte di Giustizia). Difficile pensare che i recenti accordi sui dazi non c'entrino nulla.
Il Tribunale dell’Unione europea, con sentenza del 3 settembre, ha respinto il ricorso del deputato francese Philippe Latombe diretto ad annullare il nuovo quadro normativo per il trasferimento dei dati personali tra la UE e gli USA. Non si sono fatte attendere le prime reazioni alla sentenza.
Il team legale di Latombe ha scelto un ricorso piuttosto mirato e ristretto contro l'accordo sui dati UE-USA. Sembra che, nel complesso, il Tribunale non sia stato convinto dalle argomentazioni e dai punti sollevati da Latombe. Tuttavia, ciò non significa che un'altra contestazione, che contenga una serie più ampia di argomenti e problemi relativi all'accordo, non possa avere successo. Latombe potrebbe anche decidere di appellare la decisione alla CGUE, che (a giudicare dalle precedenti decisioni in "Schrems I" e "Schrems II") potrebbe avere un'opinione diversa da quella del Tribunale.
Max Schrems, fondatore di NOYB – European Center for Digital Rights, ha dichiarato: "Si è trattato di una sfida piuttosto ristretta. Siamo convinti che un esame più ampio della legge statunitense, in particolare dell'uso degli ordini esecutivi da parte dell'amministrazione Trump, produrrebbe un risultato diverso. Stiamo valutando le nostre opzioni per presentare tale ricorso". Sebbene la Commissione abbia guadagnato un altro anno, manca ancora la certezza del diritto per gli utenti e le imprese"
Lo ha deciso un giudice al termine di una lunga battaglia legale in cui l'azienda era accusata di aver violato le leggi sulla concorrenza
Un giudice statunitense ha deciso che Google non dovrà vendere il suo browser Chrome, come aveva invece richiesto il dipartimento della Giustizia statunitense, che accusava l’azienda di aver violato le norme su monopoli e concorrenza. Il processo era iniziato nel 2019 e ad agosto del 2024 Google era stata dichiarata colpevole, ma la pena è stata stabilita solo martedì.
Chrome rappresenta il 60 per cento del mercato globale dei browser, con circa 3,5 miliardi di utenti: quasi tutti usano il motore di ricerca Google, tramite cui l’azienda guadagna con la vendita di inserzioni pubblicitarie.
Il prossimo caso “Schrems III” del 3 settembre 2025 potrebbe invalidare l’EU–US Data Privacy Framework (DPF), interrompendo nuovamente i trasferimenti di dati tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti e costringendo le imprese a ricorrere a soluzioni alternative come le Clausole Contrattuali Standard e le Transfer Impact Assessments.
Il 3 settembre 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) emetterà la propria sentenza nel caso Latombe vs Commissione Europea. In gioco c’è il futuro dell’EU–US Data Privacy Framework, la decisione di adeguatezza adottata nel luglio 2023 per ripristinare una base giuridica stabile ai flussi di dati transatlantici. Molti parlano già di questo scenario come di un “Schrems III”.
Il ricorso è stato presentato nel settembre 2023 da Philippe Latombe, deputato francese, che ha contestato direttamente la decisione di adeguatezza della Commissione ai sensi dell’articolo 263 TFUE.
Secondo Latombe, il DPF non garantirebbe una protezione “sostanzialmente equivalente” per i cittadini europei, come richiesto dall’articolo 45 GDPR e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
Quali sono i principali argomenti del ricorso e quali i possibili scenari?
Il direttore degli affari pubblici e giuridici di Microsoft Francia ha dichiarato, di fronte a una commissione del Senato francese, che l'azienda non può garantire che i dati dei cittadini francesi custoditi sui server in Europa non verranno trasmessi al governo statunitense. Si tratta di una dichiarazione estremamente importante, in particolare nell'ambito del dibattito attuale legato alla sovranità digitale europea.
Era il 10 giugno scorso quando Anton Carniaux, direttore degli affari pubblici e giuridici per Microsoft Francia, ha testimoniato di fronte al Senato francese per parlare degli ordini che l'azienda riceve tramite l'Union des groupements d'achats publics (UGAP), ovvero un ente che si occupa di centralizzare l'acquisto di beni e servizi per scuole e comuni.
Carniaux ha affermato, durante la sua testimonianza, che Microsoft non può garantire che i dati dei cittadini francesi non vengano trasferiti verso gli USA a seguito di una richiesta del governo statunitense, ma altresì che una tale richiesta di trasferimento non è mai avvenuta. Il CLOUD Act, diventato legge nel 2018, fa infatti sì che il governo statunitense possa richiedere accesso ai dati contenuti nei data center delle aziende americane, anche quando tali dati sono fisicamente localizzati in altri Paesi.