Pillole

Pillole di informazione digitale

Segnalazioni di articoli su diritti digitali, software libero, open data, didattica, tecno-controllo, privacy, big data, AI, Machine learning...

L’Antitrust Ue ha comminato una multa record da 1,8 miliardi di euro ad Apple per violazioni delle regole sulla concorrenza con i servizi di streaming musicale. Una nota dell’esecutivo europeo parla di “condizioni commerciali sleali” praticate dal gruppo. Secondo quanto emerso nell’indagine Apple non consente agli sviluppatori di app di streaming musicale di poter informare gli utenti con iPhone e iPad sui servizi di streaming musicale alternativi e più economici. L’indagine è partita su reclamo di Spotify. L’importo è nettamente più alto delle indiscrezioni di stampa che parlavano di una multa di 500 milioni.

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Dopo aver raggiunto il successo le grandi aziende tecnologiche finiscono sempre con lo sfruttare gli utenti, gli inserzionisti e i lavoratori. È ora di invertire la rotta, per creare una rete davvero libera

L’anno scorso ho coniato il termine enshittification, merdificazione, per descrivere il declino delle piattaforme digitali. Questa parolina oscena ha avuto molto successo: evidentemente riflette lo spirito del tempo. L’American dialect society l’ha scelta come parola dell’anno del 2023 (per questo, temo, sulla mia tomba ci sarà inevitabilmente l’emoji della cacca).

Ma cos’è la merdificazione, e perché se n’è parlato tanto? È una mia teoria che spiega in che modo internet è stata colonizzata dalle piattaforme digitali; perché si stanno tutte degradando rapidamente e completamente; perché è un fatto rilevante e cosa possiamo fare per rimediare. Siamo nel pieno di una grande merdificazione, in cui i servizi su cui facciamo più affidamento si stanno trasformando in mucchi di merda. È frustrante, demoralizzante, perfino terrificante.

Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic frontier foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino, in Germania.

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Un bellismo documentario in quattro parti sulle nuove forme di lavoro e di sfruttamento rese possibili dalle piattaforme digitali.

Moderatori di contenuti, riders, crowd workers, magazzinieri: tutti lavori uniti dal controllo software sulla propria attività, dalla pressione, dai rischi e dallo stress che ne derivano. Francia, Madagascar, Irlanda... è la globalizzazione.

Un'inchiesta su cosa significa oggi lavorare dentro e per le piattaforme e sulle realtà distopiche che hanno creato.

Episodio 1 Pedalare, ragazzi, pedalare!

Bilel ha 24 anni e tre fratelli. A parte il più piccolo, che va ancora alle medie, lavorano tutti per Uber Eats. Ogni giorno, compreso il week end, iniziano alle nove di mattina e staccano anche alle 4 del mattino per un totale di 400 euro lordi al mese - ammesso che nel frattempo non finiscano sotto a una macchina nel disperato tentativo di vincere un bonus. Come dovremmo chiamarla, flessibilità o schiavitù?

Episodio 2 La trappola dei micro-lavori

Sono tra i 45 e i 90 milioni i micro-lavoratori del web nel mondo. Nathalie vive in Francia, ha 42 anni, due figli ed è separata. Con il suo lavoro quotidiano - rispondere a delle domande idiote - aiuta l’algoritmo di Google a diventare sempre più umano, condannando se stessa a diventare sempre più un robot. In Madagascar, addirittura, le sfruttate del clic sono capaci di lavorare 336 ore al mese alla corte di clienti come Disneyland Paris per ritrovarsi a guadagnare 200 euro. Ecco le loro testimonianze.

Episodio 3 Traumatizzati senza moderazione

Amélie fa la moderatrice di contenuti a Barcellona presso una delle tante aziende che Facebook subappalta per svolgere questo tipo di attività. Chris fa lo stesso a Dublino. Entrambi hanno cominciato a lavorare senza prevedere che essere esposti tutti i giorni al lato peggiore dell’umanità li avrebbe catapultati in un inferno dal quale non sarebbero più riusciti a venire fuori, anche dopo aver cambiato mestiere.

Episodio 4 Il mio padrone non è un algoritmo

I proletari del clic hanno il divieto assoluto di parlare del lavoro che svolgono, persino con i propri famigliari. Eppure la consapevolezza di essere vittime di un traffico di manodopera al limite della legalità li spinge sempre più spesso a rompere il silenzio, a insorgere e a organizzarsi in forme cooperative alternative in grado di tutelare maggiormente i loro diritti.

Il numero di agenzie governative e società private infiltrate è più alto di quello che si pensava, e sono stati trovati gravi problemi alle difese informatiche americane.

Il grande attacco informatico contro gli Stati Uniti scoperto a dicembre, che ormai viene identificato con SolarWinds, l’azienda texana che è stata il principale punto d’ingresso degli hacker, sta diventando sempre più grave ed esteso mano a mano che gli esperti di sicurezza e le agenzie governative americane proseguono con le indagini e valutano i danni: potrebbero volerci mesi per capire quanto l’attacco sia andato in profondità, e potrebbero volerci anni per rimettere tutti i sistemi informatici in sicurezza, con grosse perdite economiche e danni politici. Negli Stati Uniti si sta anche cominciando a parlare delle responsabilità: non soltanto quelle dell’attacco, che secondo gli esperti è stato ordinato dall’intelligence russa, ma anche di chi avrebbe dovuto prevenirlo e non l’ha fatto.

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Mai come in questo periodo di pandemia le multinazionali della tecnologia si stanno riempiendo le tasche. Nelle crisi economiche ci sono immancabilmente vincitori e vinti e che piaccia o meno lockdown, coprifuochi e stop agli eventi stanno consentendo ad Amazon, Facebook e compagnia bella di crescere ancora più rapidamente di quanto non stessero già facendo prima della pandemia. Basti pensare che sulla scia del successo dell’e-commerce l’AD di Amazon, Jeff Bezos, ha visto il suo patrimonio personale raggiungere la cifra record di 192 miliardi di dollari (+69,9% da marzo). Questo a metà ottobre, mentre i patrimoni di Mark Zuckerberg e Bill Gates salivano rispettivamente a 97,9 (+78,6%) e 118 miliardi di dollari (+ 20,4%), e quello di Eric Yaun, il fondatore di Zoom, passava da 5,5 a 24,7 miliardi di dollari (+349%). È giusto che così tanto denaro si concentri in così poche mani? È un processo reversibile?

Intervista di Raffaella Oliva a Cory Doctorow.

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