Il lavoro a distanza permette di evitare l’emissione di circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per lavoratore[1] (-40%)[2] con notevoli risparmi in termini di tempo (circa 150 ore), distanza percorsa (3.500 km) e carburante (260 litri di benzina o 237 litri di gasolio). È quanto emerge dallo studio ENEA sull’impatto ambientale dello smart working a Roma, Torino, Bologna e Trento nel quadriennio 2015-2018, pubblicato sulla rivista internazionale Applied Sciences.
“Nel nostro Paese circa una persona su due possiede un’autovettura, vale a dire 666 auto ogni 1000 abitanti, un dato che pone l’Italia al secondo posto in Europa per il più alto tasso di motorizzazione, dopo il Lussemburgo”, spiega Roberta Roberto, ricercatrice ENEA del Dipartimento Tecnologie energetiche e fonti rinnovabili e co-autrice dell’indagine, insieme ai colleghi di altri settori dell’Agenzia Bruna Felici, Alessandro Zini e Marco Rao
Nota: affinché sia possibile avere un'idea più precisa della riduzione di emissioni di CO2, sarebbe interessante conoscere di quanto aumentano le emissioni per mettere a disposizione dei lavoratori in smart working gli strumenti necessari. Per esempio quanto CO2 emettono i server per le videoconferneza usati in Smart Working?
Puntata quasi monografica: a partire dalla recente entrata in vigore di una legge che permette il riutilizzo di rifiuti elettronici, parliamo non solo della legge e dei regolamenti che prescrive, ma anche del modo in cui questi ed altri regolamenti vengono creati, degli enti che scrivono i testi e di quali settori economici e sociali vengono da essi rappresentati.
Per concludere, una singola notiziola: gli ultimi iPhone sono più riparabili, sì, ma solo per Apple stessa. Tutto merito del parts-pairing.
Nella provincia argentina di Jujuy . Comunità da oltre un mese in lotta contro la riforma "estrattivista" della Costituzione locale imposta senza referendum. La sfida per l’oro bianco tra Cina, Usa e Ue nel triangolo sudamericano in cui si concentrano il 65% delle riserve mondiali. E i costi reali della presunta transizione verde
Mentre a Bruxelles i 60 rappresentanti dell’Unione europea e della Celac inneggiavano alla transizione ecologica a cui aprirebbe la strada la cooperazione biregionale in materia di approvvigionamento del litio e di altre materie prime essenziali, la popolazione della provincia argentina di Jujuy avrebbe avuto molto da dire sui costi concreti di quella presunta transizione verde.
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A partire dall'approvazione della riforma la repressione, scatenata con inaudita violenza già dal giorno successivo, non ha fatto che aumentare – senza peraltro riuscire a fermare le proteste – combinandosi con una persecuzione giudiziaria che non sta risparmiando nessuno: manifestanti, rappresentanti del popoli indigeni, sindacalisti, docenti, avvocati.
«Tutto questo è per il litio», denunciano le comunità indigene in resistenza contro il modello estrattivista perseguito dal governatore Morales, in piena corsa per le primarie della destra in coppia con il capo di governo di Buenos Aires Horacio Rodríguez Larreta, che lo ha voluto come suo vice.
Certo vi sorprenderà scoprire che le cosiddette Terre Rare, un gruppo di 17 elementi chimici che prende il nome dall’inglese Rare Earth Elements, rare non lo sono affatto: il cerio è presente tanto quanto il rame e i due elementi più rari della serie (tulio e lutezio) sono 200 volte più abbondanti dell’oro. Il problema è che estrarre questi metalli tanto indispensabili alle tecnologie – fibre ottiche, auto ibride, pannelli solari, computer, touchscreen, ma anche radar militari – è un processo complesso e molto difficile.
Solo per fare un esempio, servono tremendi solventi. Tremendi per chi? Qui, come sempre, arrivano le note dolenti, anzi dolorrosissime. Ce le racconta in questo articolo, tratto da Valori, in modo molto chiaro Anna Radice Fossati. Qui anticipiamo solo che la Cina che produce circa il 60% delle terre rare mondiali, ne lavora e raffina il 90% e detiene il 37% circa delle riserve mondiali. Però ha pensato bene di “esternalizzzare” il problema a Myanmar, la terra insanguinata dai vecchi generali birmani
Ecco la classifica - con l'inserimenti di Big Tech al suo interno - dei Paesi che inquinano e consumano più energia al mondo
Una domanda che, sotto certi versi, può sembrare assurda ma che – di fatti – non lo è assolutamente. Basta dare una letta all’ultimo rapporto di Karma Metrix per rendersi conto che Big Tech (ovvero il gruppo delle maggiori aziende IT occidentali) consuma e inquina quanto uno stato sviluppato. La risposta a entrambe le domande – sulle emissioni di CO2 e sull’energia consumata per le proprie attività – la troviamo ben espressa nel documento, in grafici di vario tipo che aiutano a capire – a colpo d’occhio – il peso sul mondo di Big Tech in questi termini.
Intervista. L’architetta che insegna a Eindhoven, specialista del lavoro automatizzato, racconta la sua ricerca, attraverso la quale propone nuove prospettive di osservazione sul complesso rapporto tra lavoro e tecnologia
Negli ultimi anni i data center sono diventati un importante area di investimento. Le previsioni indicano una forte crescita nella produzione di dati, che dovrebbero crescere del 23% all’anno dal 2020 al 2025, raggiungendo i 180 zettabyte nel 2025, secondo il Global DataSphere di IDC.
La società di consulenza Garnter stima che la domanda di storage dei dati potrebbe potenzialmente salire al 50% dal 2020 al 2030. Crescita che sta superando le possibilità delle odierne soluzioni di archiviazione, che porterà a una potenziale insufficienza.
Gli sviluppi dell’IA, dell’Internet delle cose e del Metaverso aggraveranno il problema. La più grande società di servizi immobiliari commerciali a livello globale, CBRE ha aperto una divisione per i data center, lo stesso hanno fatto aziende di architettura e ingegneria come Corgan, HDR, Gensler, AECOM e Arup.
È opportuno ricordare che i data center rappresentano oltre il 2% delle emissioni globali di carbonio, l’equivalente del settore aereo. Senza miglioramenti nell’efficienza energetica, il consumo di elettricità dei data center potrebbe aumentare dal 3% al 13% del consumo totale di elettricità entro il 2030.
Nel 2022 il mercato dei computer e degli smartphone ricondizionati, insieme, vale circa 70 miliardi di dollari. Si tratta di un circuito globale fatto da consumatori che vendono i propri dispositivi quando hanno concluso il loro primo ciclo di vita, di riparatori in grado di rimetterli in sesto, di rivenditori specializzati in dispositivi ricondizionati (ovvero riparati e riportati al massimo delle possibilità alle condizioni di fabbrica) e, infine, di consumatori interessati a smartphone e laptop di seconda mano ma rimessi a nuovo.
Questo meccanismo funziona dal punto di vista economico e permette a oggetti che hanno perso valore nei mercati ufficiali di diventare nuovamente dei prodotti a tutti gli effetti. Inoltre, permette ai consumatori di acquistare dispositivi tecnologici performanti a prezzi contenuti. Funziona anche dal punto di vista ambientale, contribuendo ad abbattere l’impatto di un mercato che genera moltissime emissioni e i cui prodotti sono ormai parte integrante del tessuto socio-economico umano.
L'associazione americana PIRG ha pubblicato un'analisi e scheda di come diversi produttori di laptop e cellulari si posizionino rispetto alla possibilità di riparare i loro dispositivi. A uscirne peggio sono Apple, Microsoft, e Google.
Leggi l'articolo completo sul sito di Guerre di rete
Una palaquium gutta matura poteva produrre circa 300 grammi di lattice. Ma nel 1857, il primo cavo transatlantico era lungo circa 3000 km e pesava 2000 tonnellate – richiedeva quindi circa 250 tonnellate di guttaperca. Per produrre una sola tonnellata di questo materiale erano necessari circa 900.000 tronchi d'albero. Le giungle della Malesia e di Singapore furono spogliate, e all'inizio del 1880 la palaquium gutta si estinse.
Questa è una delle storie più interessanti che racconta il libro della studiosa di media digitali Kate Crawford, Né artificiale né intelligente. Il lato oscuro dell’IA (Il Mulino, 2021, 312 pp., versione italiana dell’originale inglese Atlas of AI. Power, Politics and the Planetary Costs of Artificial Intelligence, Yale University Press, 2021).
Ma cosa c’entra il disastro ambientale vittoriano della guttaperca con l’intelligenza artificiale?
È proprio questo il merito del libro della Crawford, unire i puntini che legano la storia dello sviluppo tecnologico con il nostro presente. La storia di come si estinse l’albero di palaquium gutta è un’eco giunta fino a noi dalle origini della società dell’informazione globale, per mostrarci come siano intrecciate le relazioni tra la tecnologia e la sua materialità, l’ambiente e le diverse forme di sfruttamento.
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Crawford costruisce una visione dell’IA non come una semplice tecnologia o un insieme di scoperte tecnologiche, ma come un apparato socio-tecnico, o socio-materiale, animato da una complessa rete di attori, istituzioni e tecnologie. L’IA per Crawford è “un’idea, un’infrastruttura, un’industria, una forma di esercizio del potere; è anche una manifestazione di un capitale altamente organizzato, sostenuto da vasti sistemi di estrazione e logistica, con catene di approvvigionamento che avviluppano l’intero pianeta” (p. 25).
Leggi l'articolo intero di Tiziano Bonini sul sito di DOPPIOZERO
Nella quarta puntata del ciclo "Estrattivismo dei dati", focus su Intelligenza Artificiale con Daniela Tafani, docente di filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Pisa.
Nella prima parte Tafani introduce l'Intelligenza Artificiale. Cosa è; le distorsioni con cui viene volutamente presentata; cos'è l'apprendimento automatico e gli ingredienti tecnologici fondamentali: dati, potenza di calcolo e algoritmi.
Nella seconda parte: come vengano occultati i costi ambientali, estrattivistici ed energetici dei sistemi di IA; come viene in realtà sfruttato massicciamente il lavoro umano, sottopagato e delocalizzato.
Nella terza parte: i rischi delle decisioni automatizzate prese attraverso i sistemi di Intelligenza Artificiale, con la convinzione che siano capaci di prevedere il comportamento di singoli individui. Perché si parla di bolla giuridica e perché si propone l’illegalità di default dei sistemi di IA.
Ascolta la registrazione sul sito di Radio Onda Rossa
Vera e propria rivoluzione, il digitale era la promessa di un mondo più verde: meno carta stampata e viaggi ridotti. Tuttavia questa dematerializzazione ha delle conseguenze e gli impatti ambientali sembrano ancora essere sconosciuti o ignorati dal grande pubblico.
In un momento in cui l’obsolescenza programmata sta aumentando la produzione di dispositivi elettronici e il volume di dati digitali generati dall’umanità sta esplodendo, come possiamo rendere l’inquinamento digitale un problema visibile, ma soprattutto come possiamo ridurre l’impronta del digitale nella crisi climatica?
Dal punto di vista del suo ciclo vitale, la fabbricazione di un oggetto elettronico necessita la produzione di componenti complessi che richiedono energia, trattamenti chimici, acqua, ma soprattutto una notevole quantità di metalli preziosi. Questa industria contribuisce al 76% dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili in tutto il mondo[1], per non parlare delle discutibili pratiche di estrazione e delle condizioni di lavoro spesso deplorevoli.
Leggi l'articolo completo sul sito di pressenza
Le terre rare sono un gruppo di 17 minerali ormai considerati indispensabili per la transizione ecologica e digitale, visto il loro diffuso utilizzo in ambiti come le tecnologie avanzate, la medicina, la difesa e le infrastrutture per trarre energia da fonti rinnovabili. Tuttavia si tratta di materiali che in natura si presentano in concentrazioni molto basse, legati in composti con altri minerali. Il che rende la loro estrazione un processo lungo, complesso e, soprattutto, altamente inquinante.
Ad oggi la produzione di terre rare raggiunge le centinaia di migliaia di tonnellate ogni anno: 243.300 nel 2020, di cui circa 140mila prodotte dalla Cina e 38mila dagli Stati Uniti. La Cina da sola detiene il 38% delle riserve esistenti a livello globale, per un totale di 44 milioni di tonnellate su 115,8.
Leggi l'articolo completo sul sito di Openpolis
Carbolytics è un progetto all'intersezione tra arte e ricerca che ha l'obbiettivo di sensibilizzare e invitare all'azione sull'impatto ambientale della sorveglianza pervasiva all'interno dell'ecosistema della tecnologia pubblicitaria (AdTech), così come a fornire una nuova prospettiva per affrontare i costi sociali e ambientali delle pratiche opache di raccolta dati.
Il tracking online è l'atto di raccogliere dati dall'attività degli utenti online, come leggere le notizie, acquistare articoli, interagire sui social media o semplicemente fare una ricerca online.
È noto che il tracciamento e la registrazione del comportamento degli utenti è diventato un importante modello di business nell'ultimo decennio. Tuttavia, anche se le conseguenze sociali ed etiche delle pratiche abusive di sorveglianza online sono state oggetto di dibattito pubblico almeno dalle rivelazioni di Snowden nel 2013, i costi energetici e ambientali di tali processi sono stati tenuti lontani dall'occhio pubblico. L'apparato globale di raccolta dati è un complesso labirinto tecnologico che ha bisogno di grandi quantità di risorse per esistere e funzionare, eppure le aziende raramente rivelano informazioni sull'impronta ambientale di tali operazioni. Inoltre, una parte dei costi energetici derivanti dalle pratiche di raccolta dati è ricade sull'utente, che involontariamente contribuisce al grande aumento di produzione di CO2.
Anche se questo è un aspetto critico della sorveglianza, c'è un'allarmante mancanza di volontà sociale, politica, aziendale e governativa per la responsabilità, quindi una richiesta di azione è urgente.
La ricerca alla base di Carbolytics ha preso in esame e analizzato le emissioni di carbonio prodotte dal numero totale di cookie appartenenti al milione di siti web più visitati al moneto. L'indagine ha identificato più di 21 milioni di cookie per ogni singola visita a tutti questi siti web, appartenenti a più di 1200 aziende diverse, il che si traduce in una media di 197 trilioni di cookie al mese, con conseguente emissione di 11.442 tonnellate metriche mensili di CO2.
È importante notare che questo numero riflette solo il traffico di cookie basato sul browser e non include l'attività di tracciamento delle App, quindi stimiamo che questo numero sia drammaticamente più alto.
Carbolytics è anche una installazione web interattiva che mostra il traffico globale medio dei cookies in tempo reale.
Il lifecycle della rete
Nell’immaginario collettivo, quando si portano avanti analisi sull’impatto dell’industria umana sull’ambiente uno degli ambiti produttivi dal volto più eco-friendly è quello delle telecomunicazioni (TLC). Questa attitudine deriva dall’incapacità di riconoscere un impatto fisico effettivo causato da un sistema percepito come totalmente immateriale.
Si tratta di una disposizione assolutamente sbagliata: la rete infrastrutturale delle telecomunicazioni comporta delle forti ripercussioni sull’ambiente in ogni singola fase del suo life cycle.
L’industria delle TLC ricopre sempre maggiore importanza e vede una crescita estremamente rapida dell’utenza online mondiale, 25 volte più alta rispetto al 2011 per la sola rete mobile. Bisogna iniziare ad interrogarsi sull’effettiva eco-sostenibilità del sistema telecomunicativo e della sua rete infrastrutturale in ogni sua singola fase, direttamente partendo dalla sua effettiva realizzazione.
Gli impatti ambientali maggiori nella fase di costruzione sono riscontrabili nel consumo di materie prime per la realizzazione delle leghe metalliche necessarie per la creazione di cavi e strutture (principalmente rame ed acciaio), nei costi energetici del processo di produzione dei materiali e nelle emissioni causate dal trasporto dei suddetti componenti nelle strutture per l’assemblamento.
In seguito alla fase di costruzione, segue quella che si rivela essere più complicata a livello d’impatto ambientale, ossia la fase operativa della struttura. Le dinamiche ambientali che si sviluppano in questo caso sono legate al consumo di energia elettrica per permettere il funzionamento della struttura: maggiore sarà la sua capacità di immagazzinazione e trasmissione dati, maggiore sarà il suo consumo energetico. Inoltre, le strutture non sono in grado di regolare il fabbisogno energetico nei momenti di basso traffico, mantenendo dunque elevati i consumi anche quando non è necessario. Infine, nella fase di “fine della vita” delle strutture, la maggiore problematica risiede in un “end of life treatment” incapace di smaltire e riciclare i prodotti hi-tech.
Gli scarti non vengono recuperati sistematicamente ed essendo destinati ad aumentare di anno in anno a causa dei crescenti investimenti nelle TLC finiranno a popolare le enormi discariche del terzo mondo. Ogni singola fase del processo di vita della rete telecomunicativa comporta delle forti problematiche ambientali, per troppo tempo sottovalutate e che ora devono essere oggetto di maggiore attenzione rispetto al passato.
L’inquinamento digitale è un fenomeno prodotto dai combustibili fossili utilizzati per produrre l’elettricità necessaria per il funzionamento dei centri dati e dei server, nonché dalla produzione e dallo smaltimento dei dispositivi elettronici che utilizziamo. È responsabile del 4% di emissioni di gas serra e l’attuale andamento suggerisce che tali emissioni possano raddoppiare entro il 2030 a causa dell’aumento degli utenti a livello globale.
Internet non è infatti immateriale: è costituito da una moltitudine di elementi (computer, cavi, antenne) che permettono ai dati (video, foto, email, pagine web) di essere conservati e trasferiti ai nostri dispositivi. Queste tecnologie devono essere prodotte e alimentate, generando un costo energetico significativo.
Com’è prodotto l’inquinamento digitale?
Leggi l'articolo completo
Vedi anche DIRTY DATA L’impatto ambientale dell’infrastruttura delle telecomunicazioni
Le proteste che sono divampate in Kazakistan, scatenate dalla crisi dell’elettricità e del gas, sembra abbiano a che fare anche con un’attività finanziaria in cui il Paese è campione: l’estrazione di cripto valute, come Bitcoin e Ethereum.
Intervista. Parla Sanneke Kloppenburg, autrice di un saggio su climate governance e criptovalute. L’illusione di rivoluzionare la lotta alla CO2 con codici informatici
Di recente Sanneke Kloppenburg è stata co-autrice di un articolo estremamente informativo in cui lei e i suoi due colleghi conducono un’indagine di quella che soprannominano «cryptogovernance climatica». Hanno analizzato i documenti di svariate organizzazioni internazionali che si occupano di governance climatica e hanno scovato un gran numero di tesi che potrei definire soltanto “tecno-risolutive” riguardo all’immenso potenziale trasformativo del blockchain. Eppure, leggendo l’articolo, ho avuto l’impressione che somigliassero a quelle «soluzioni non trasformative» – frase che prendo in prestito dal loro ottimo saggio – che circolano nel dibattito sulle politiche internazionali.
Come era prevedibile, emerge che gran parte di questo genere di discorso sulla cryptogovernance non è che l’ennesimo modo di legittimare gli approcci esistenti, fondati su una combinazione di tecnocrazia e di fiducia nel funzionamento delle soluzioni incentrate sul mercato. Come viene chiarito dall’articolo, le tecnologie blockchain rafforzano inoltre molte delle tendenze esistenti della governance ambientale, fra cui – parola nuova per me – la “misuramentalità”.
Leggi l'intervista di Morozov
A cavalcare l'onda dei chip sono sia il mercato dell'auto, dove ormai i semiconduttori sono presenti in molteplici parti, dal gruppo motore alla navigazione all'infotainment, alla strumentazione, sia gli altri prodotti come i pc, le cui vendite sono aumentate in seguito al maggior peso dello smartworking in tempi di pandemia
Ndr: Nessuno prende in considerazione di ridurre la corsa al prodotto nuovo? Per esempio: sto scrivendo con un computer ricondizionato, acquistato 4 anni fa, che ha 6 anni di età ed è ancora velocissimo.
Leggi l'articolo completo
Tra emissioni, consumi, rifiuti e impronta ambientale, la rivoluzione informatica è sempre meno ecologica. [...] La rivoluzione digitale si è in effetti compiuta, almeno in larga parte, mentre la crisi climatica è sempre lì che incombe, anzi: sempre più. Ridimensionato l’ottimismo acritico della prima ondata per l’innovazione digitale – già messo in discussione, su basi economiche e politiche, da autori come Evgeny Morozov – le cosiddette ICT (information and communications technologies) hanno alla fine deluso le aspettative più rosee di riduzione dell’impatto ambientale.
Negli anni, le tecnologie informatiche e digitali sono diventate, anzi, per certi versi, parte del problema. Qualche dato: per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali, compresi 240 chili di combustibili fossili. Internet da sola succhia il 10% dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più, con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo internazionale. Due ricerche su Google rilasciano anidride carbonica al pari di una teiera d’acqua portata a ebollizione, Netflix consuma da sé l’energia di 40mila abitazioni statunitensi. Mezz’ora di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile (secondo altre fonti, non più di un chilometro e mezzo ), mentre un solo ciclo di training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita. Complessivamente, i consumi energetici dell’intelligenza artificiale raddoppiano ogni 3,4 mesi, e per risolvere in pochi secondi il cubo di Rubik a un algoritmo serve l’elettricità prodotta in un’ora da tre centrali nucleari.
leggi l'articolo completo di Giacometti su "il Tascabile".
L'impronta di carbonio è determinante e dipende dalla qualità di produzione dell'energia (rinnovabile o no) che alimenta le fasi di fabbricazione e rifornimento degli accumulatori. Se lo scenario, che descriviamo minuziosamente, resta quello attuale, le vetture elettriche sono responsabili di emissioni maggiori di CO2 rispetto a quelle ibride e con motori termici di ultima generazione. In attesa di una conversione (vera) alle rinnovabili
Leggi l'articolo su "Il Fatto quotidiano"
Digital technologies now emit 4% of greenhouse gas emissions (GHG), and its energy consumption is increasing by 9% a year. The Shift Project published in March 2019 (updated in 2020) the rapport “Lean ICT – Towards Digital Sobriety” (2019). In it we recommended making digital transition compatible with climate imperatives and the constraints of resources. Digital sobriety consists in prioritizing the allocation of resources as a function of uses, in order to conform to the planet’s physical boundaries, while preserving the most valuable societal contributions of digital technologies. This requires questioning the pertinence of how we use digital technologies, one of which is online video whose use we focus on in this new report “Climate crisis: The unsustainable use of online video – A practical case study for digital sobriety” (2019).
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