Quando a fine anni ’80 Deng Xiaoping affermò che “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”, in pochi diedero il giusto peso alla dichiarazione dell’allora leader della Repubblica Popolare cinese.
Come invece sempre più spesso accade, il Dragone asiatico dimostrò di avere la capacità di immaginare e mettere in atto strategie di lungo termine: le terre rare, infatti, rappresentano oggi uno dei maggiori motivi di frizione geopolitica nel mondo, a causa dell’elevata richiesta e del loro complesso approvvigionamento, di cui la Cina detiene il monopolio.
Praticamente nessun settore industriale ad alta tecnologia può farne a meno, da quello militare – per missili guidati, droni, radar e sottomarini – a quello medico, in cui sono impiegate per risonanze magnetiche, laser chirurgici, protesi intelligenti e molto altro ancora.
Non fa eccezione il settore tecnologico e in particolare quello legato allo sviluppo e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Come spiega Marta Abbà, fisica e giornalista esperta di temi ambientali, le terre rare possiedono qualità magnetiche uniche e sono eccellenti nel condurre elettricità e resistere al calore, e anche per questo risultano essenziali per la fabbricazione di semiconduttori, che forniscono la potenza computazionale che alimenta l’AI, per le unità di elaborazione grafica (GPU), per i circuiti integrati specifici per applicazioni (ASIC) e per i dispositivi logici programmabili (FPGA, un particolare tipo di chip che può essere programmato dopo la produzione per svolgere funzioni diverse).
Sono inoltre cruciali per la produzione di energia sostenibile: disprosio, neodimio, praseodimio e terbio, per esempio, sono essenziali per la produzione dei magneti utilizzati nelle turbine eoliche.
Senza terre rare, quindi, si bloccherebbe non solo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, ma anche quella transizione energetica che, almeno in teoria, dovrebbe accompagnarne la diffusione rendendola più sostenibile. Insomma, tutte le grandi potenze vogliono le terre rare e tutte ne hanno bisogno, ma pochi le posseggono.
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Fallisce l'ultimo tentativo di scollegare la Federazione russa dal Web mondiale con una rete autonoma da Vladivostok a Krasnodar. Per 4 ore nella notte del 5 luglio si è spento tutto: stazioni, aeroporti, siti pubblici e di informazione. La rete russa per i russi non ha funzionato, neanche per un minuto
Per isolarsi si sono danneggiati. Meglio: per costringere tutti i “governati” all’isolamento, si sono paralizzati. Si parla della Russia. Il 5 luglio, dalla mezzanotte alle quattro dell’alba (ora di Mosca), il paese di Putin ha provato a disconnettersi completamente da Internet, ha provato a tagliare quei deboli fili che ancora lo collegano alla rete mondiale.
I risultati sono stati disastrosi. Anche stavolta sono stati disastrosi. Sì, perché da tempo, da qualche anno prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia sta testando quello che Putin chiama “il sistema Internet sovrano”: una rete che parte da Krasnodar e finisce a Vladivostok e che non ha “porte” verso l’esterno. Dove ovviamente qualsiasi cosa sarebbe controllata dal Cremlino.