Un bellismo documentario in quattro parti sulle nuove forme di lavoro e di sfruttamento rese possibili dalle piattaforme digitali.
Moderatori di contenuti, riders, crowd workers, magazzinieri: tutti lavori uniti dal controllo software sulla propria attività, dalla pressione, dai rischi e dallo stress che ne derivano. Francia, Madagascar, Irlanda... è la globalizzazione.
Un'inchiesta su cosa significa oggi lavorare dentro e per le piattaforme e sulle realtà distopiche che hanno creato.
Episodio 1 Pedalare, ragazzi, pedalare!
Bilel ha 24 anni e tre fratelli. A parte il più piccolo, che va ancora alle medie, lavorano tutti per Uber Eats. Ogni giorno, compreso il week end, iniziano alle nove di mattina e staccano anche alle 4 del mattino per un totale di 400 euro lordi al mese - ammesso che nel frattempo non finiscano sotto a una macchina nel disperato tentativo di vincere un bonus. Come dovremmo chiamarla, flessibilità o schiavitù?
Episodio 2 La trappola dei micro-lavori
Sono tra i 45 e i 90 milioni i micro-lavoratori del web nel mondo. Nathalie vive in Francia, ha 42 anni, due figli ed è separata. Con il suo lavoro quotidiano - rispondere a delle domande idiote - aiuta l’algoritmo di Google a diventare sempre più umano, condannando se stessa a diventare sempre più un robot. In Madagascar, addirittura, le sfruttate del clic sono capaci di lavorare 336 ore al mese alla corte di clienti come Disneyland Paris per ritrovarsi a guadagnare 200 euro. Ecco le loro testimonianze.
Episodio 3 Traumatizzati senza moderazione
Amélie fa la moderatrice di contenuti a Barcellona presso una delle tante aziende che Facebook subappalta per svolgere questo tipo di attività. Chris fa lo stesso a Dublino. Entrambi hanno cominciato a lavorare senza prevedere che essere esposti tutti i giorni al lato peggiore dell’umanità li avrebbe catapultati in un inferno dal quale non sarebbero più riusciti a venire fuori, anche dopo aver cambiato mestiere.
Episodio 4 Il mio padrone non è un algoritmo
I proletari del clic hanno il divieto assoluto di parlare del lavoro che svolgono, persino con i propri famigliari. Eppure la consapevolezza di essere vittime di un traffico di manodopera al limite della legalità li spinge sempre più spesso a rompere il silenzio, a insorgere e a organizzarsi in forme cooperative alternative in grado di tutelare maggiormente i loro diritti.
Fra le applicazioni pratiche, esaltate dagli entusiasti e sminuite dagli scettici, ricordiamo: i servizi di assistenza alla clientela (in particolare i chatbot delle compagnie telefoniche); gli acquisti, sempre più personalizzati e rapidi; i social network, in particolare le notifiche e i feed (ad esempio, la timeline di FB, costruita in base al profilo di ciascun utente); la finanza, dove gli algoritmi di trading da parecchio hanno soppiantato gli obsoleti negoziatori umani; viaggi e trasporti, dai suggerimenti del navigatore alla pianificazione degli spostamenti fino alle occasioni di ospitalità; le case furbe (smart), disseminate di sensori in grado di regolare la temperatura dell’acqua, l’illuminazione e così via; le automobili furbe (smart), con tanti accorgimenti per assistere la guida, in prospettiva delle auto a guida autonoma; la sorveglianza e il controllo, nelle strade come a casa propria, spesso attraverso sistemi di riconoscimento facciale e vocale; l’assistenza sanitaria, nella diagnosi precoce così come nella ricerca farmaceutica di nuove molecole, nella gestione dei dati dei pazienti, nella chirurgia di precisione.
E, infine, nell’educazione: per abbassare l’ansia dell’apprendimento, personalizzare l’insegnamento, ma soprattutto controllare e monitorare, valutare, schedare…
Sgombrare il campo dagli equivoci sull’IA non è banale.
Leggi l'articolo di Carlo Milani su La ricerca
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