Il governo ha dato l’ok alla cessione al fondo Usa, che (dicono i documenti ufficiali) farà profitti stellari tagliando su lavoro e investimenti: il 50% dei ricavi verrà dall’ex monopolista
La vendita della rete Tim è una vicenda assurda ma tutto avviene alla luce del sole e forse per questo nessuno si ribella. I numeri mostrano che il governo Meloni ha fatto un enorme regalo al fondo Usa Kkr. Metterli in fila illumina anche il modo con cui si vendono a questi giganti pezzi di industria, un pessimo segnale in vista delle privatizzazioni da 20 miliardi che il ministro Giancarlo Giorgetti ha promesso ai mercati, cioè ai “fratelli” di Kkr.
Il primo luglio Tim e il gigante Usa da 400 miliardi di asset gestiti hanno siglato il contratto di vendita dopo mesi di negoziati. Agli americani passa la rete telefonica e di connessione in rame e fibra per un prezzo di 18,8 miliardi tra esborso diretto e debito accollato. Lo Stato – tramite il Tesoro – entra nella partita spendendo due miliardi per il 20% del capitale della nuova società della rete: “Netco”. Nell’operazione entrano anche il fondo infrastrutturale italiano F2i che avrà il 10%, mentre il fondo sovrano di Abu Dhabi Adia e il Canada Pension Plan avranno quote rispettivamente del 20% e del 17,5%. Senza la rete, alla vecchia Tim resterà la parte servizi, “SerVco”, il cui secondo azionista (dietro i francesi di Vivendi) è sempre lo Stato, con Cassa depositi e prestiti (9,8%), che in questa storia ci perde due volte: venendo escluso dalla partita della rete e rimanendo azionista di una società che da inizio anno, cioè da quando il governo ha autorizzato la vendita della rete, ha visto il suo valore in Borsa calare del 24%.
Per i vertici di Tim l’operazione era una via obbligata per salvare la società, abbattendo il debito da oltre 20 miliardi che zavorra il gruppo, eredità delle mitiche scalate a debito dei privati (che peraltro sono storicamente il piatto forte di Kkr). Il punto d’arrivo dell’oscena privatizzazione degli anni Novanta.
Il primo luglio c'è stata la firma dal notaio per il passaggio della rete primaria di Tim al fondo americano KKR. La rete e 20mila dipendenti passano così in Fibercop, la società della rete secondaria di Tim.
L’operazione ha carattere epocale, perché Tim è l’unico grande operatore europeo che si priva della rete, un asset fondamentale per qualunque operatore Tlc. Nessun altro ex incumbent europeo, da Telefonica a BT (nonostante la separazione della rete in Openreach), passando per DT e Orange, si era mai privato del suo asset principale. Una scommessa, quella sulla Netco, che il mercato guarda con curiosità ma non senza qualche timore.
La localizzazione del dato sta diventando sempre di più un "false friend". il 24 giugno Microsoft ha ammesso agli organi di polizia scozzesi che non può garantire che i dati sensibili delle forze dell'ordine rimangano nel Regno Unito.
Può sembrare che processare i dati nei confini territoriali dello Stato sia una garanzia assoluta di sovranità. Purtroppo non è così, intanto perchè banalmente non sempre accade. Ed il caso inglese è emblematico. Ma comunque c’è sempre un dato fattuale che non possiamo più far finta di non vedere. L’operatore cloud extraeuropeo spesso si processa i dati in casa: la sua.
Nella migliore delle ipotesi, tiene fermi i dati degli utenti inattivi, ma gli altri li porta fuori e sono proprio quelli in elaborazione.
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Di quale sovranità stiamo parlando quando reclamiamo la localizzazione dei dati nei confini UE? Lo capiamo facilmente seguendo il filo conduttore che ha portato al rinnovo dell’accordo di data flow UE/US.
Fallisce l'ultimo tentativo di scollegare la Federazione russa dal Web mondiale con una rete autonoma da Vladivostok a Krasnodar. Per 4 ore nella notte del 5 luglio si è spento tutto: stazioni, aeroporti, siti pubblici e di informazione. La rete russa per i russi non ha funzionato, neanche per un minuto
Per isolarsi si sono danneggiati. Meglio: per costringere tutti i “governati” all’isolamento, si sono paralizzati. Si parla della Russia. Il 5 luglio, dalla mezzanotte alle quattro dell’alba (ora di Mosca), il paese di Putin ha provato a disconnettersi completamente da Internet, ha provato a tagliare quei deboli fili che ancora lo collegano alla rete mondiale.
I risultati sono stati disastrosi. Anche stavolta sono stati disastrosi. Sì, perché da tempo, da qualche anno prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia sta testando quello che Putin chiama “il sistema Internet sovrano”: una rete che parte da Krasnodar e finisce a Vladivostok e che non ha “porte” verso l’esterno. Dove ovviamente qualsiasi cosa sarebbe controllata dal Cremlino.