I motivi per smettere di essere utenti delle piattaforme degli oligopoli USA sono vari e diversificati. Ciò non significa smettere immediatamente di utilizzare i social network e gli altri servizi delle grandi aziende tecnologiche americane.
Siamo tutte nella stessa barca e abbiamo tutte vulnerabilità che vengono sfruttate dalle megamacchine per farci passare molto tempo "attaccate" alle loro piattaforme. Si tratta di intraprendere un percorso alla scoperta degli automatismi che mettiamo in atto che ci impediscono di scegliere, inventando soluzioni che facciano tesoro delle alternative tecnologiche già esistenti.
Entriamo nel vivo e vediamo alcuni dei motivi per cui vale la pena intraprendere questo percorso.
Come ormai sappiamo, WhatsApp ha dato un ultimatum a tutti i suoi utenti: chi non ha accettato la nuova policy entro il 15 maggio non potrà più usare WhatsApp.
L'azienda di proprietà di Facebook, con sede Europea in Irlanda, ci aveva già provato a febbraio 2021 sollevando feroci critiche che l'avevano indotta a rimandare la scadenza per avere il tempo di spiegare meglio agli utenti i cambiamenti introdotti nella policy.
A quanto pare, come nella prima ondata della pandemia di Covid-19, il MIUR e, quindi la scuola, si è fatto trovare impreparato da diversi punti di vista. Da quello della progettazione didattica: il blended learning ha la stessa necessità di progettare le attività didattiche della DaD o della didattica in presenza, anzi forse di più; dal punto di vista dell’utilizzo dei dati: per la verità la questione si è aggravata, perché nel frattempo la Corte di Giustizia Europea ha invalidato l’accordo, detto “Privacy Shield”, tra l’Unione Europea e gli Usa; infine anche dal punto di vista del software libero.
questo articolo è pubblicato in "Formare... a distanza?", II edizione, C.I.R.C.E. novembre 2020
I sovranisti digitali dicono che l'Italia (e l'Europa) deve gestire i dati dei propri cittadini, che i dati sono il nuovo petrolio senza i quali non ci sarà ripresa economica. Intanto nasce l'infrastruttura cloud Europea "Gaia-X" e la Corte di Giustizia Europea invalida l'accordo "Privacy Shield" con gli USA, ma siamo sicuri che abbiamo davvero bisogno di memorizzare tutti questi dati?
In questo periodo di accelerazione dell'uso del digitale generato dalla pandemia si sente molto parlare, almeno fra gli addetti ai lavori, di battaglia sul cloud, di dati come nuovo petrolio e di sovranità digitale. Molti osservatori sostengono anche che dal risultato di questa battaglia dipenderà la sopravvivenza dell’Europa come potenza economica.
Sintetizziamo il ragionamento per sommi capi: i dati sono la materia prima fondamentale per l’economia e le società contemporanee. Bisogna quindi controllarli, proteggendo i cittadini e le imprese europee che li utilizzano economicamente per trarne profitto. Bisogna inoltre contrastare lo strapotere tecno-economico di Stati Uniti e Cina.
A tal fine è necessario che i cittadini e le imprese siano garantiti contro l'utilizzo "malvagio" dei dati. Ovvero bisogna impedire che potenze straniere e conglomerate Big Tech extra europee li utilizzino per attuare forme di controllo o di manipolazione dei comportamenti attraverso la pubblicità commerciale e politica “targettizzata” (Shoshana Zuboff , Il capitalismo della sorveglianza).
All’interno di questo schema generale, vediamo cosa è successo in questo periodo.
Il lockdown deciso dal governo Italiano e dalla maggior parte dei governi degli Stati a capitalismo avanzato ha determinato un'accelerazione fortissima dell'uso del digitale.
Scuole ed università si sono viste costrette ad adottare la didattica a distanza per poter proseguire le lezioni.
Questa situazione di emergenza ha fatto venire al pettine tutti i nodi di decenni di immobilismo e distruzione del poco che era stato costruito.
Innanzi tutto va detto che gli insegnanti, ma anche gli studenti e, ahimè, i genitori, si sono dovuti far carico della distanza, di inventarsi "a distanza", poiché poco o nulla è stato sperimentato sotto la guida degli organi competenti e quindi nulla è stato messo a sistema. In ordine sparso, scuole e università hanno tentato di fare buon viso a cattivo gioco, a volte facendo finta di nulla: riprodurre la didattica in presenza attraverso le video chat. Poi, pian piano, sono arrivate le assegnazioni dei compiti da fare a casa; chi attraverso le mail, chi attraverso Google Drive, qualcuno attraverso piattaforme come Edmodo, e così via. Nel frattempo il Ministero ha cominciato a dare indicazioni, tramite la sua pagina web (https://www.istruzione.it/coronavirus/didattica-a-distanza.html), sulle piattaforme per la didattica a distanza da adottare: Google Suite, Office 365, Weschool.
Il Ministero, non avendo idee migliori, ha scelto di affidarsi ai grandi sia per le garanzie di affidabilità che offrono, sia per l'abitudine che gli utenti (insegnanti e studenti) hanno già nell'uso di una parte degli strumenti messi a disposizione. È il caso di Google e Microsoft Office. E così, anche nel campo della didattica, è continuato lo scivolamento verso le imprese private di una funzione tipica della Cosa Pubblica. Una esternalizzazione in atto da anni anche in altri settori cruciali, come la sanità.
Questo è ciò che è accaduto.
Ora, passati tre mesi dalla chiusura forzata delle scuole, tutti coloro che hanno a cuore le sorti della scuola pubblica italiana chiedono che la risposta alla crisi innescata dal Coronavirus sia l’occasione per investire nella scuola: più soldi per l’edilizia scolastica e per assumere insegnanti allo scopo di ridurre il numero di studenti per classe e avere risorse per una didattica migliore che metta al centro la crescita degli studenti.
Non è ancora chiaro come riapriranno le scuole a settembre, ma per quanto se ne sa il Ministero vorrebbe "spingere" per la didattica mista: parte in presenza e parte a distanza. Le direttive sono sempre le stesse di tre mesi fa: piattaforme per la DAD delle grandi multinazionali americane, e arrangiatevi!
In questo panorama sono spariti completamente il metodo didattico, la libertà di insegnamento, la questione della privacy e dei dati, il digital divide. Proviamo a farli riemergere.